Dimentichiamoci per un attimo i consumatori in carne e ossa. Oggi, anche gli avatar hanno gusti, stile e, soprattutto, potere d’acquisto.

È questo il nuovo terreno su cui si muove il fashion, e Coach, brand americano nato in un laboratorio di Manhattan nel 1941 e oggi da 5 miliardi di dollari di fatturato, lo ha capito bene.
Con la campagna “Find your courage”, Coach ha scelto come volto la virtual human Imma, icona digitale che invita gli utenti ad avere il coraggio di essere reali anche nei mondi virtuali.
La collezione? Disponibile su Roblox e Zepeto per vestire non noi, ma i nostri avatar. Rileggi bene e deglutisci. Non noi, i nostri AVATAR.

Ma non parliamo di un gioco. Il vaso di Pandora è stato scoperchiato: entro il 2030 il mercato degli avatar potrebbe valere 270 miliardi di dollari, spingendo nuovi modelli di business e di comunicazione. Già oggi, solo negli USA, si parla di 10 miliardi di dollari in questo segmento.

Gli avatar – realistici, ibridi, stilizzati – sono sempre più protagonisti di campagne pubblicitarie, customer journey e assistenza online. E oltre il 60% dei top brand europei ha già integrato virtual influencer nelle proprie strategie marketing.

💡 Ma cosa rende un avatar efficace?

Secondo il Politecnico di Milano, che ha appena pubblicato una ricerca nell’ambito del progetto Virtual Influencer Effectiveness, non è tanto l’aspetto fisico a contare, ma il comportamento.
Il legame che si crea tra utente e avatar è simile a quello che si sviluppa con un influencer reale, ma solo se l’agente virtuale è credibile nei gesti, nella voce, nell’interazione.

  • il 63% degli utenti che percepiscono l’avatar come simile a un umano sviluppa un legame quasi reale;
  • ma la percentuale sale al 77% se l’avatar si comporta in modo autentico: espressioni facciali naturali, gestualità coerente, tono di voce umano.

🧠 Questo meccanismo prende il nome di relazione parasociale: un legame emotivo unilaterale, ma potente, in cui l’utente sente familiarità e fiducia.
E funziona. Un avatar percepito come credibile genera:

  • il 62% di probabilità che l’utente acquisti il prodotto consigliato;
  • il 74% di probabilità che lo consigli ad altri.

Attenzione però: c’è un rischio – mai sentito nè avvertito prima sinceramente – chiamato uncanny valley: più un avatar è “quasi umano”, più può generare disagio.
È il paradosso studiato da Masahiro Mori già nel 1970: un’entità che sembra umana ma non lo è del tutto può creare repulsione. È il motivo per cui il robot di Star Wars R2-D2 ci fa simpatia, mentre un replicante troppo realistico può inquietare.

Per questo, come suggerisce Lucio Lamberti del Politecnico di Milano, le parole chiave per i brand sono:

  • trasparenza: dichiarare quando si usano entità artificiali;
  • chiarezza: evitare ambiguità visive o comportamentali;
  • scopo: l’avatar deve avere un ruolo preciso e comprensibile;
  • umanocentrismo: il buon senso e la creatività restano umani.

A guidare le aziende oggi sono due direttrici:

  1. l’iper-personalizzazione dei servizi al cliente;
  2. la semplificazione del processo d’acquisto.

⚠️ Ma attenzione: se questi sistemi riducono troppo la libertà dell’utente, scatta la cosiddetta reattanza psicologica. In pratica, se l’utente si sente spinto troppo fortemente in una direzione, si ribella. E ci sta.

Sei pronto a una comunicazione sempre più popolata da identità artificiali? Personalmente no, già sono nauseato da tutti i video fake che stanno spopolando su IG & Soci. Mi ci mancano gli avatar.

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