Nella tarda serata di martedì è arrivata la notizia che ha fatto tremare (e subito dopo esultare) la Silicon Valley: un giudice federale ha stabilito che Google non sarà obbligata a vendere Chrome, il browser più diffuso al mondo.

Una sentenza che rappresenta una vittoria significativa per il colosso di Mountain View nel più importante processo antitrust degli ultimi trent’anni. Non a caso, il giorno dopo a Wall Street Big Tech ha vissuto un rally: le azioni di Alphabet sono schizzate fino al +9,2% raggiungendo i massimi storici, e perfino Apple ha beneficiato della notizia con un +3%.

👉 Attenzione però: non è una vittoria totale. La corte ha imposto a Google due obblighi principali:

  1. Condividere i dati di ricerca con motori concorrenti (Microsoft, DuckDuckGo, ma anche nuovi player come OpenAI e Perplexity).
  2. Non imporre più l’installazione obbligatoria delle app Google ai produttori Android per avere accesso al Play Store.

Resta invece intatto un pilastro del modello di business: i pagamenti miliardari ad Apple (circa 20 miliardi l’anno) per mantenere Google come motore di ricerca predefinito su iPhone e Safari.

Il giudice Amit Mehta ha sottolineato come l’arrivo della GenAI abbia cambiato radicalmente lo scenario competitivo: chatbot e sistemi come ChatGPT stanno erodendo traffico ai motori tradizionali, e questo ha inciso sulla decisione finale.

Google ha accolto con favore il verdetto, mentre concorrenti come DuckDuckGo lo ritengono insufficiente: “Google continuerà a sfruttare il proprio monopolio”, ha dichiarato il CEO Gabriel Weinberg.

Google porta a casa una vittoria che sa di ossigeno puro. Ma la partita sul fronte antitrust è tutt’altro che chiusa.

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